Il sig. Mario T. e la sig.ra Carlotta V., proprietari di un immobile, agiscono in data 20 gennaio 2005 contro il sig. Franco Q., proprietario dell'appartamento sito al piano superiore, al fine di ottenere il risarcimento dei danni derivanti da infiltrazioni di acqua dai medesimi subite.

Soltanto in data 25 giugno 2001 il Tribunale adito emette la sentenza richiesta da Mario T. e Carlotta V.. Data la irragionevole durata del processo, ossia il ritardo nella decisione della causa civile da essi instaurata, Mario T. e Carlotta V. si recano da un avvocato per informarsi sulla possibilità di ottenere il risarcimento del danno, oltre che patrimoniale, anche morale derivante da tale ritardo.

I sigri Mario T. e Cala hanno richiesto al sito per eccellenza di consulenza legale un parere giuridico motivato prima di recarsi al loro avvocato territorialmente vicino.

Il caso di specie necessita preliminarmente per la sua soluzione di una breve analisi della disciplina legislativa vigente in materia di «danno da irragionevole durata del processo».

Ai sensi dell'art. 6, paragrafo primo, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (C.E.D.U.), entrata in vigore in Italia il 26 ottobre 1955, ogni persona ha diritto alla trattazione della sua causa equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole, davanti ad un Tribunale indipendente ed imparziale costituito per legge, che deciderà sia dei suoi diritti e doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa in materia penale che gli venga rivolta.

L'art. 13 stabilisce che ogni persona, i cui diritti e le cui libertà nella Convenzione siano stati violati, ha diritto ad un ricorso effettivo davanti ad un'istanza nazionale. E l'art. 35, par. 1, enuncia la regola che la Corte europea dei diritti dell'uomo non può essere adita se non dopo l'esaurimento delle vie di ricorso interne.

L'art. 41, infine, stabilisce che se la CEDU dichiara che vi è stata violazione della Convenzione e se il diritto interno della parte contraente non permette che in modo incompleto di eliminare le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un'equa soddisfazione alla parte lesa.

Da questa rapida ricognizione normativa della Convenzione citata, emerge chiaramente che il meccanismo di tutela da essa previsto riveste un carattere sussidiario rispetto ai sistemi nazionali di garanzia dei diritti fondamentali.

Spetta in primo luogo agli Stati contraenti prevedere — nei rispettivi diritti interni — meccanismi di ricorso effettivo, concreto ed efficace, che consenta:no di avvalersi dei diritti e delle libertà della Convenzione.
In questo contesto deve essere interpretata la legge 24 marzo 2001, n. 89 (cd. Legge Pinto) che ha introdotto nell'ordinamento italiano l'istituto dell'equa riparazione a favore di chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto della violazione della Convenzione sopracitata, «sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all'art. 6, par. 1, della Convenzione medesima» (art. 2 L. 89/01).

Come si desume chiaramente dalla lettera della legge, il fatto giuridico che fa sorgere il diritto di equa riparazione da essa previsto è costituito dalla violazione della Convenzione, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all'art. 6, par. 1, della Convenzione.

La ratio che è alla base della Legge Pinto è da individuare principalmente nella necessità di prevedere un rimedio giurisdizionale interno contro le violazioni relative alla durata (spesso interminabile) dei processi, sì da realizzare la sussidiarietà dell'intervento della Corte di Strasburgo, espressamente sancita dalla CEDU (art. 35: «la Corte non può essere adita se non dopo l'esaurimento delle vie di ricorso interne»).

Dunque, alleggerire il notevole carico di procedimenti risarcitori promossi da cittadini italiani di fronte alla Corte di Strasburgo per ottenere il ristoro dei danni subiti in seguito alla irragionevole durata dei procedimenti giurisdizionali di fronte all'autorità giudiziaria italiana.

Da detto principio deriva il dovere per gli Stati che hanno ratificato la CEDU, di garantire agli individui la protezione dei diritti riconosciuti dalla CEDU stessa anzitutto nel proprio ordinamento interno e di fronte agli organi di giustizia nazionali. In definitiva, la legge 89/01 costituisce la via di ricorso interno che la «vittima della violazione» deve adire prima di rivolgersi alla Corte Europea per chiedere l'equa soddisfazione ex art. 41 CEDU, la quale, quando sussista la violazione, viene accordata dalla Corte soltanto «se il diritto interno dell'altra parte contraente non permette che in modo incompleto di riparare le conseguenze di tale violazione».

Dopo aver inquadrato il problema sotto un profilo squisitamente legislativo, a questo punto è necessario esaminare anche la tipologia di danno invocato dagli attori, ossia il danno non patrimoniale.

Per danno non patrimoniale (che non è esclusivamente sofferenza morale), si intende la lesione di un interesse non economico, ossia la lesione di un interesse che alla stregua della coscienza sociale è suscettibile di valutazione economica

Detta nozione ricomprende varie tipologie di danno: il danno morale, il danno esistenziale, nel cui ambito vanno inclusi — secondo autorevole dottrina — anche il danno psichico ed il danno biologico .

Il codice civile sancisce la regola della risarcibilità dei danni non patrimoniali «solo nei casi determinati dalla legge» (art. 2059 c.c.), cioè principalmente nei casi derivanti da reato.

Il codice penale, dal canto suo, prevede all'art. 185 la suddetta risarcibilità. Detta regola trova ragione in ciò, che la norma penale tutela valori sociali di rilevanza pubblica la cui violazione esige in favore della vittima una completa riparazione del danno prodotto, economico e non economico.

Va rilevato che il danno non patrimoniale è insuscettibile di risarcimento «per equivalente» in senso proprio, non essendo gli interessi lesi misurabili in termini monetari.

Alla prestazione risarcitoria del danno non patrimoniale deve piuttosto riconoscersi una natura indennitaria, intesa a dare alla vittima un ristoro pecuniario socialmente valevole a riparare il suo pregiudizio.

Di conseguenza risultano inapplicabili i criteri di quantificazione del danno patrimoniale.

Il danno non patrimoniale deve essere determinato in via equitativa: ai fini della sua determinazione, occorre tuttavia fare riferimento agli elementi che determinano la maggiore o minore gravità personale del danno. In mancanza di parametri economici, dunque, il giudice deve fissare quel risarcimento che in relazione alla gravità della lesione appaia socialmente adeguato.

Dalla copiosa giurisprudenza della Corte di Strasburgo si desume che il danno non patrimoniale conseguente alla irragionevole durata del processo, una volta che sia stata provata detta violazione, viene normalmente liquidato alla vittima della violazione, senza che sia necessario provarne la sua sussistenza, sia pure in via soltanto preventiva.

E ciò a differenza del danno patrimoniale, per il quale si richiede invece la prova della sua esistenza.

Tale orientamento interpretativo della Corte Europea non significa, tuttavia, che il danno non patrimoniale sia in re ipsa, ossia insito nella mera esistenza della violazione. Infatti, ciò comporterebbe che, accertata la violazione, dovrebbe necessariamente conseguirne il risarcimento del danno non patrimoniale che non potrebbe essere escluso.

Autorevole dottrina ha sostenuto che tale tesi interpretativa si pone in evidente contrasto proprio con l'art. 41 CEDU, ove si prevede che, accertata la violazione, la Corte Europea accorda un'equa soddisfazione alla parte lesa «quando è il caso», e quindi non in tutti i casi.

Non si può quindi accettare la tesi del danno-evento e cioè del danno non patrimoniale insito nella violazione della durata ragionevole del processo.
Il danno non patrimoniale — anche secondo la citata Convenzione europea — costituisce una conseguenza della detta violazione, la quale, però, a differenza del danno patrimoniale, si verifica normalmente, e cioè di regola, per effetto della violazione stessa.

Ed, in effetti, è normale che la anomala lunghezza della pendenza di un processo produca nella parte che vi è coinvolta un patema d'animo, una sofferenza morale che non è necessario provare, sia pure attraverso semplici presunzioni.i tratta, infatti, di conseguenze non patrimoniali che possono ritenersi presenti secondo l'id quod plerumque accidit, senza bisogno di alcun sostegno probatorio relativo al singolo caso.

Alla luce di quanto detto, è evidente, però, che esistono situazioni concrete in cui tali conseguenze normali della pendenza di un processo vanno escluse (circostanze da valutare caso per caso, come, ad esempio, quando il protrarsi del giudizio risponde ad un interesse della parte): in assenza di tali situazioni particolari, il danno non patrimoniale non può allora essere negato alla persona che ha visto violato il proprio diritto alla durata ragionevole del processo, subendo, perciò, l'afflizione ed il turbamento causati dall'eccessiva attesa della decisione (a prescindere dall'esito, favorevole o sfavorevole, della stessa).

Ritenere, allora, che il danno non patrimoniale si verifica normalmente per effetto della violazione dell'art. 6 CEDU, non si pone in contrasto con le disposizioni della legge 89/2001 ed, in particolare, con l'art. 2 che configura il diritto di equa riparazione.
La citata legge Pinto non si è infatti voluta discostare dalla CEDU.

Particolarmente significativa, in tal senso, è la norma di cui al comma 2 dell'art. 2, ove sono indicati i criteri ai quali il giudice italiano si deve attenere al fine di accertare se vi sia stata o meno violazione del termine ragionevole di durata del processo: la complessità del caso, il comportamento delle parti, del giudice e delle altre autorità. Sono questi i tre criteri fondamentali elaborati dal consolidato indirizzo della giurisprudenza europea sulla CEDU, che vengono enunciati nello stesso ordine seguito dalla citata norma della legge italiana.

In definitiva, la norma di cui all'art. 2 della legge 89/01 non deve ritenersi in contrasto con la CEDU, laddove ricollega l'indennizzo all'avere «subito un danno patrimoniale o non patrimoniale», non considerando sufficiente l'accertamento della mera violazione della CEDU.

Ovviamente, la legge nazionale non esclude una diversità della prova richiesta per la sussistenza dei due tipi di danno, diversità correlata evidentemente alle differenti caratteristiche del danno patrimoniale e del danno non patrimoniale.

Mentre l'esistenza del primo, derivando da circostanze percepibili esteriormente, può (e deve) formare oggetto di specifica dimostrazione, la sofferenza di un danno non patrimoniale per la lungaggine del processo, avendo natura meramente psicologica, non è obiettivamente dimostrabile, ragion per cui l'interprete deve prendere atto che esso si verifica nella normalità dei casi, secondo l'id quod plerumque accidit.

In relazione al danno non patrimoniale derivante dalla violazione dell'art. 6 della CEDU (nel profilo considerato dalla legge 89/2001), può allora parlarsi non di danno insito nella violazione (rectius: danno in re ipsa), bensì di prova del danno di regola in re ipsa, nel senso che provata la sussistenza della violazione — ciò comporta, nella normalità dei casi, anche la prova che essa ha prodotto conseguenze non patrimoniali in danno della parte processuale.

Ma tale rapporto di consequenzialità, proprio perché normale e non automatico, può trovare una secca smentita nel singolo caso concreto, allorquando emergano circostanze che dimostrino — come già ampiamente illustrato — che quelle conseguenze non si sono verificate.

La giurisprudenza si è espressa più volte sull'argomento della risarcibilità del danno non patrimoniale derivante da un'irragionevole durata del processo. In tal senso:
La valutazione dei danni morali, quali normali conseguenze della violazione dell'obbligo di ragionevole durata del processo e quindi presunti, va effettuata dai giudici italiani secondo gli standard ed i precedenti giurisprudenziali adottati dalla Corte europea (Cass. Sez. Un. 26-1-2004, n. 1339). Tale principio è stato pedissequamente ribadito nella successiva sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione (Cass. Sez. Un. 26-1-2004, n. 1340).

Ed ancora, più recentemente.

In tema di equa riparazione ai sensi della legge 24-3-2001, n. 89, il comportamento della parte che il giudice deve considerare nell'accertare la violazione della Convenzione per salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, sotto il profilo del rispetto del termine di durata ragionevole del processo, è soltanto quello che abbia contribuito con incidenza causale a rendere tale durata irragionevole; ne consegue che, allorquando il processo, pendente in primo grado (nella specie: da oltre otto anni), abbia già oltrepassato in concreto il termine di durata ragionevole, la Corte territoriale non può escludere il domandato indennizzo dando esclusivo rilievo ad un comportamento della parte (consistente nella richiesta di rinvio dell'udienza di discussione dinanzi al collegio) posto in essere successivamente al superamento della predetta soglia (Cass. 21-3-2003, n. 4142).

Non risultando dalla Convenzione europea ratificata con la legge 4-8-1955, n. 848 il limite massimo di ragionevole durata del processo, esso va desunto con riferimento alla complessità del caso e sottraendo i segmenti temporali attribuibili alle parti dall'arco temporale che poggia sulle varie fasi e gradi del processo, sicché la parte che pretende l'indennizzo non può, nell'impugnazione in sede di legittimità, limitarsi a denunciare l'irragionevole ritardo nella definizione di un procedimento (nella specie a tutela del possesso protrattosi per dodici anni) ma deve indicare specificamente le attività processuali concretamente compiute (Cass. 3-2-2004, n. 1921).

Punto sulla questione

Ai sensi dell'art. 6, paragrafo primo, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (C.E.D.U.) ogni persona ha diritto alla trattazione della sua causa equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole, davanti ad un Tribunale indipendente ed imparziale costituito per legge, che deciderà sia dei suoi diritti e doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa in materia penale che gli venga rivolta.

La legge 24 marzo 2001, n. 89 (cd. Legge Pinto) ha introdotto nell'ordinamento italiano l'istituto dell'equa riparazione a favore di chi ha subIto un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto della violazione della Convenzione sopracitata, «sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all'art. 6, par. 1, della Convenzione medesima» (art. 2 L. 89/01).

La ratio che è alla base della Legge Pinto è da individuare principalmente nella necessità di prevedere un rimedio giurisdizionale interno contro le violazioni relative alla durata (spesso interminabile!) dei processi, sì da realizzare la sussidiarietà dell'intervento della Corte di Strasburgo, espressamente sancita dalla CEDU.

Per danno non patrimoniale (che non è esclusivamente sofferenza morale), si intende la lesione di un interesse non economico, ossia la lesione di un interesse che alla stregua della coscienza sociale è suscettibile di valutazione economica. Il codice civile sancisce la regola della risarcibilità dei danni non patrimoniali «solo nei casi determinati dalla legge» (art. 2059 c.c.), cioè principalmente nei casi derivanti da reato.
Il danno non patrimoniale è insuscettibile di risarcimento «per equivalente» in senso proprio, non essendo gli interessi lesi misurabili in termini monetari.

a) Il danno non patrimoniale deve essere determinato in via equitativa.

In mancanza di parametri economici, il giudice deve fissare quel risarcimento che in relazione alla gravità della lesione appaia socialmente adeguato.

Il danno non patrimoniale non è in re ipsa, ossia insito nella mera esistenza della violazione. Il danno non patrimoniale costituisce una conseguenza della detta violazione, la quale, però, a differenza del danno patrimoniale, si verifica normalmente, e cioè di regola, per effetto della violazione.

LA CONSULENZA GIURIDICA DELLO STAFF DI DIPENDENTI PUBBLICI

Per risolvere il caso di specie, è necessario applicare alla fattispecie in esame il metodo della valutazione globale, al fine di valutare se — in concreto — si sia o meno verificata violazione della durata ragionevole del processo.

Infatti, come più volte precisato dalla giurisprudenza della Cassazione, non è possibile fermarsi alla semplice constatazione della durata seppur interminabile di un processo, ma occorre guardare a come esso si è concretamente svolto; ciò, tenendo conto del comma 2 dell'art. 2 della legge 89/01, a norma del quale, nell'accertare la violazione del principio del termine ragionevole di cui all'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, il giudice considera la complessità del caso ed, in relazione alla stessa, il comportamento delle parti e del giudice del procedimento, nonché quello di ogni altra autorità chiamata a concorrervi o comunque a contribuire alla sua definizione.

Per poter allora risolvere il caso concreto sottoposto al nostro esame, sarà onere di Mario T. e Carlotta V. (parti richiedenti l'indennizzo) indicare le attività processuali concretamente compiute all'interno del processo e nei suoi vari gradi, si da poter consentire la verifica della congruità delle attività svolte.

Per quanto concerne, poi, la determinazione del quantum dell'indennizzo e della tipologia di danno da liquidare, in linea di principio Mario T. e Carlotta V. hanno diritto a veder riconosciuti e quindi risarciti — oltre che il danno patrimoniale — anche i danni morali ossia i danni di natura psicologica subiti proprio a causa di un «servizio inefficiente».

È ovvio che «paterna d'animo, ansia e stress» non sono gli stessi per tutte le cause: occorre infatti determinare l'incidenza che ha assunto il processo de quo nella persona coinvolta. Il diritto al risarcimento del danno morale sorge, infatti, per il semplice fatto che quel processo non è stato trattato entro tempi ragionevoli.

Tuttavia, il danno morale non è un danno-evento (cioè in re ipsa), ma è un danno conseguenza che deve essere provato sia nell'an che nel quantum: è tuttavia un danno che si verifica normalmente per effetto della violazione del principio della ragionevole durata del processo. Il criterio di valutazione è l'id quod plerumque accidit e dunque il danno morale va presunto.

La presunzione del danno morale è una delle differenze fondamentali dal danno patrimoniale che, viceversa, deve essere specificamente dimostrato.

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